Molto scalpore ha suscitato l’uscita del ministro Profumo
riguardo l’aumento delle ore lavorative (24 al posto di 18 a parità di
stipendio) per i docenti della scuola pubblica, accompagnata da una prebenda di 15 giorni di ferie. Ovviamente
le 6 ore aggiuntive sono tutte di presenza in classe e non, come in altri
paesi, di attività affini alla didattica. Anche l’allungamento delle
ferie impedirebbe di fatto, a qualsiasi istituto, di chiudere l’anno scolastico,
con gli esami di riparazione, a luglio.
Che, poi, il ministro sia digiuno di competenze
pedagogiche si è evidenziato allorchè si è espresso nei confronti della
categoria (che dovrebbe, ogni tanto, tutelare) come non si fa ormai da decenni nei confronti
degli studenti, resuscitando la storiella del bastone e della carota (alla
manifestazione di venerdi 12 ottobre gli studenti, alla luce delle ultime
esternazioni, si erano carotadotati).
L’attuale ministro ha un curriculum invidiabile (basta
cercare su wikipedia). E’ un ingegnere elettrotecnico. Ho provato, quindi,
stupore, quando leggendo la sua infelice esternazione non abbia trovato scritto
che “gli insegnanti vanno presi con il trasformatore ed il convertitore
rotante”…pure un cacciavite potrebbe servire. Magari un cercafase per monitorare la tensione del docente.
Da cosa nasce tutto questo autentico disprezzo? Dal fatto che la scuola sia considerata, nell’opinione pubblica, ma
anche e soprattutto in settori dell’economia, un sostanziale spreco di denaro
pubblico. Per dimostrare tale spreco si utilizzano indici di dubbia
attendibilità. Sappiamo come vanno a finire certe cose: invece di aggiornare
questi indici li si usa come totem. Prendiamo ad esempio l’indice basato sul
rapporto tra numero di docenti e numero di alunni è un indice importato da
altri settori economici e viene subdolamente utilizzato a dimostrazione di una
eccessiva presenza di insegnanti (e quindi di spreco di denaro pubblico).
Attualmente questo rapporto è pari circa a 4: in media ci sono 4 studenti per
ogni insegnante. Gettato in questa maniera nella piazza mediatica e a caratteri
cubitali crea quasi comprensibile sdegno. Come se davvero entrando in classe un
insegnante mediamente trovasse 4 alunni che stanno ad ascoltarlo.
Quasi sempre si utilizzano i
numeri a favore di una tesi precostituita, soprattutto se si applica il metodo scientifico moderno alle scienze sociali.. Lo sanno bene gli economisti, intenti a lustrare i
loro modelli matematici come fossero macchine d’epoca. Non ci vuole molto a capire che lo stesso rapporto di 1 a 4 è lo
stesso che si avrebbe in una classe di 40 alunni con 10 insegnanti (quante sono
le materie). Eppure una classe di 40
alunni non è, per motivi di sicurezza, possibile in nessun istituto. E’
evidente che ci sia un problema di interpretazione dei numeri: L’equivoco di
fondo è che si tratta l’insegnamento
alla stessa stregua delle altre attività lavorative dove il rapporto tra
erogatore e utenza è di uno a uno, mentre nella scuola è uno a molti (non solo
per gl insegnanti ma anche per tutte le altre componenti all’interno di una
struttura scolastica). In termini statistici si sta confondendo una media
aritmetica con una media armonica: se infatti utilizzassimo lo stesso
indice materia per materia (docenti di matematica su numero studenti; docenti
di lettere su numero studenti e così via) scopriremmo che l’indice in questione
non è la media aritmetica ponderata degli indici per materia.
Tayloristicamente parlando, insegnare
un‘ora in una classe, supponiamo di 10 alunni, o dividere l’ora in 10 parti (6
minuti) da dedicare a ciascun alunno è la stessa identica cosa (10 alunni è un
caso estremo: la capienza media della classi si aggira attorno ai 25-30 alunni).
Ma insegnare “collettivamente” e non come se fossimo dal medico o ad uno sportello della posta, dove si viene
visitati o serviti uno alla volta, è un’altra cosa: come dicono tutte le scuole del
pensiero pedagogico moderno la numerosità delle classi, l’insegnare ad un
gruppo piuttosto che singolarmente crea valore aggiunto. Strano che sfugga proprio ai cervelloni economici (anche quelli di area progressista). Meno che sfugga alla stragrande rappresentanza sindacale intenta più a contare le tessere. Difatti, traccia di questo valore aggiunto a livello contrattuale non esiste essendo rimasti a modelli di
riferimento orario con larga compiacenza dei colleghi irriducibili (le BR avevano un disegno e altre sciocchezze,...) a
cui il paragone con il mondo operaio risveglia in loro sopiti aneliti giovanili.
Le reazioni, che io definisco romantiche, che provengono dal mondo della scuola non
faranno mai breccia nei cuori aridi dei tecnocrati. Per poter fare cadere le
convinzioni occorre usare i loro stessi strumenti. Fermo restando che, poi,
ognuno deve fare il proprio compito e assumersi le proprie responsabilità.
L’idea di dovermi affiancare in questa battaglia a colleghi e colleghe che hanno trovato nella scuola un vero e
proprio pozzo di S. Patrizio mi fa accapponare la pelle. In questo aiutati dalle varie sigle sindacali che ritengo essere stati tra i
responsabili dell’inattuazione dei principi dell’autonomia scolastica. Che ha
portato la scuola ad essere “circondata” anno dopo anno da forze molto ben
organizzate: sull’Invalsi ho già detto altrove come pure dello studio della Banca d’Italia, statisticamente scorretto, uscito tre anni fa senza
che nessuno sollevasse obiezioni.
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